BONUS BEBÈ: SPETTA ANCHE AGLI STRANIERI CON PERMESSO DI SOGGIORNO RILASCIATO PER BREVE PERIODO – LA LEGGE N. 190/2014 RISULTA DISCRIMINATORIA ED IN CONTRASTO CON LA DIRETTIVA 98/2011 E QUINDI DEVE ESSERE DISAPPLICATA ANCHE DALL’INPS

Sentenza n. 731/2021 (RG. n. 6739/2019) del 24.6.2021 del Tribunale di Milano – Sezione Lavoro – Giudice Dott.ssa Francesca Capelli (Studio Legale Kòsa Musacchio – Click Avvocato – Avvocato del contribuente).

FATTI (BONUS BEBÈ: SPETTA ANCHE AGLI STRANIERI)

Il ricorrente straniero, con permesso di soggiorno breve per lavoro, in qualità di genitore, in data 22.10.2018, presentava presso l’INPS domanda di assegno di natalità, ex art. 1, comma 125 della Legge 23 dicembre 2014, per la minore …, nata in data 5.6.2016. L’INPS, con provvedimento del 29.3.2019, rigettava la suddetta istanza, con la testuale motivazione “dopo sblocco”.

Il ricorrente ritenendo che il provvedimento dell’INPS sia errato, illegittimo e nullo, con il patrocinio dell’Avv. Margherita Kòsa e dell’Avv. Francesco Musacchio (Studio Legale Kòsa Musacchio – Click Avvocato – Avvocato del contribuente), proponeva impugnazione avanti il Tribunale di Milano, sostenendo quanto in seguito.

Secondo l’art. 1, comma 125 della Legge 23 dicembre 2014, n. 190 e Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 27 febbraio 2015:

“Al fine di incentivare la natalità e contribuire alle spese per il suo sostegno, per ogni figlio nato o adottato tra il 1° gennaio 2015 e il 31 dicembre 2017 è riconosciuto un assegno di importo pari a 960 euro annui erogato mensilmente a decorrere dal mese di nascita o adozione.

L’assegno, che non concorre alla formazione del reddito complessivo di cui all’articolo 8 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni, è corrisposto fino al compimento del terzo anno di età ovvero del terzo anno di ingresso nel nucleo familiare a seguito dell’adozione, per i figli di cittadini italiani o di uno Stato membro dell’Unione europea o di cittadini di Stati extracomunitari con permesso di soggiorno di cui all’articolo 9 del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni, residenti in Italia e a condizione che il nucleo familiare di appartenenza del genitore richiedente l’assegno sia in una condizione economica corrispondente a un valore dell’indicatore della situazione economica equivalente (ISEE), stabilito ai sensi del regolamento di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 5 dicembre 2013, n. 159, non superiore a 25.000 euro annui.

L’assegno di cui al presente comma (il bonus bebè) è corrisposto, a domanda, dall’INPS, che provvede alle relative attività, nonché a quelle del comma 127, con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.

Qualora il nucleo familiare di appartenenza del genitore richiedente l’assegno sia in una condizione economica corrispondente a un valore dell’ISEE, stabilito ai sensi del citato regolamento di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri n. 159 del 2013, non superiore a 7.000 euro annui, l’importo dell’assegno di cui al primo periodo del presente comma è raddoppiato”.

Ad avviso del ricorrente la previsione del requisito del permesso di soggiorno di lunga durata è in palese contrasto con le normative europee e per tale motivo il Giudice nazionale ha l’obbligo di disapplicarla. A tal fine il ricorrente ha fatto presente che la Direttiva europea n. 2011/UE/98 impone, infatti, lo stesso trattamento di sicurezza sociale ai cittadini comunitari e agli stranieri extracomunitari titolari di permesso di soggiorno a fini lavorativi. Sul punto anche la giurisprudenza risulta consolidata e chiarisce che i cittadini extracomunitari possono accedere alla suddetta agevolazione se in possesso di regolare permesso di soggiorno per lavoro (come nel caso in esame) e non solo se in possesso di permesso di soggiorno di lungo termine.

Il ricorrente produceva all’INPS tutta la documentazione necessaria, unitamente alla relativa istanza, attestanti le condizioni richieste, da cui risultava che:

  1. la minore …, figlia del ricorrente, è nata in data 5.6.2016;
  2. il ricorrente, cittadino di uno Stato extracomunitario, è in possesso di regolare permesso di soggiorno per lavoro;
  3. il ricorrente è residente in Italia;
  4. il nucleo familiare del ricorrente è in una condizione economica corrispondente a un valore dell’indicatore della situazione economica equivalente (ISEE) non superiore a 25.000 euro annui.

Per tale ragione, ad avviso del ricorrente, era incomprensibile e soprattutto illegittimo il rigetto della proposta domanda.

MOTIVI DELLA DECISIONE (BONUS BEBÈ: SPETTA ANCHE AGLI STRANIERI)

Il ricorrente, come detto, ha lamentato il carattere discriminatorio del diniego dell’assegno di natalità da parte dell’INPS, fondato sul differente trattamento riservato dalla legge n. 190/2014, la quale, prevedendo tra i requisiti per il riconoscimento della prestazione che il richiedente sia cittadino italiano o europeo ovvero, se straniero, titolare del permesso di soggiorno CE per soggiornanti lungo periodo ed esclude dal beneficio gli stranieri in possesso di permesso di lavoro subordinato, in violazione del principio di parità di trattamento sancito dall’art. 12 della direttiva 98/2011.

INPS, sul punto, ha eccepito che l’assegno di natalità (il bonus bebè) non rientra nel settore di operatività della direttiva UE 98/2011 citata in ricorso, che si applica esclusivamente al settore della previdenza sociale, bensì nell’ambito di applicazione della direttiva CE 109/2003, la quale riconosce agli Stati membri dell’UE potere di deroga al principio di parità di trattamento in materia di prestazioni di natura assistenziale, fra le quali va ricompreso anche l’assegno di natalità ex art. 1, comma 125 della legge n. 190/2014.

INPS ha altresì eccepito che la direttiva UE 98/2011 non troverebbe comunque applicazione nel nostro ordinamento, poiché non recepita da legge nazionale e non auto- esecutiva.

Le eccezioni formulate dal resistente non venivano accolte dal Tribunale.

Secondo l’art. 1, comma 125 della legge n. 190 del 2014, attuata mediante D.P.C.M.  27.02.2015, al fine di incentivare la natalità e contribuire alle spese per il sostegno della stessa, ha introdotto nel nostro ordinamento l’assegno di natalità (cd. Bonus bebè), vale a dire un assegno erogato mensilmente:

  • alle famiglie in condizione economica corrispondente a un valore ISEE non superiore a 25.000,00 euro annui;
  • per ogni figlio nato o adottato, tra l’01.01.2015 e il 31.12.2017, di cittadini italiani o di uno Stato membro dell’UE o di cittadini di Stati extracomunitari con permesso di soggiorno CE per i soggiornanti di lungo periodo ex art. 9 d.lgs. 286/1998, residenti in Italia;
  • sino al compimento del terzo anno di età o del terzo anno di ingresso nella famiglia a seguito di adozione.

Successivamente, l’art. 1, comma 248, della legge n. 205/2017 ha riconosciuto il bonus bebè anche ai nati o adottati nel 2018 fino al compimento del primo anno di età ovvero del primo anno di ingresso nel nucleo familiare a seguito dell’adozione.

L’art. 23 quater del decreto legge n. 119/2018 (poi convertito nella legge n. 136/2018) ha esteso il bonus anche ai nati o adottati nel corso del 2019 e nel corso del 2020, fino al compimento del primo anno di età o di ingresso nel nucleo familiare, con un aumento del 20% in caso di figlio successivo al primo.

L’art. 1, commi 340 e 341, della legge n. 160/2019 ha riconosciuto l’assegno (il bonus bebè) anche per i figli nati e adottati durante il 2020, fino al compimento del primo anno di età o del primo anno di ingresso nel nucleo familiare a seguito dell’adozione, con aumento del 20% in caso di figlio successivo al primo.

L’art. 12 della direttiva UE 98/2011 stabilisce che i cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini diversi dall’attività lavorativa a norma del diritto dell’Unione o nazionale, ai quali è consentito lavorare e che sono in possesso di un permesso di soggiorno ai sensi del regolamento CE 1030/2002 e i cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini lavorativi a norma del diritto dell’Unione o nazionale beneficiano “dello stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano per quanto concerne:

a) le condizioni di lavoro, tra cui la retribuzione e il licenziamento nonché la salute e la sicurezza sul luogo di lavoro;

b) la libertà di associazione, adesione e partecipazione a organizzazioni di lavoratori o di datori di lavoro o a qualunque organizzazione professionale di categoria, compresi i vantaggi che ne derivano, fatte salve le disposizioni nazionali in materia di ordine pubblico e pubblica sicurezza;

c) l’istruzione e la formazione professionale;

d) il riconoscimento di diplomi, certificati e altre qualifiche professionali secondo le procedure nazionali applicabili;

e) i settori della sicurezza sociale definiti nel regolamento (CE) n. 883/2004; f) le agevolazioni fiscali, purché il lavoratore sia considerato come avente il domicilio fiscale nello Stato membro interessato;

g) l’accesso a beni e servizi a disposizione del pubblico e all’erogazione degli stessi, incluse le procedure per l’ottenimento di un alloggio, conformemente al diritto nazionale, fatta salva la libertà contrattuale conformemente al diritto dell’Unione e al diritto nazionale;

h) i servizi di consulenza forniti dai centri per l’impiego”.

Contrariamente a quanto sostenuto da INPS in sede di costituzione, l’assegno di natalità va ricompreso tra “i settori della sicurezza sociale come definiti dal regolamento UE 883/2004”, dal momento che lo stesso è riferibile alle “prestazioni familiari” di cui all’art. 3, paragrafo 1, lett. j) e alle “prestazioni in natura o in denaro destinate a compensare i carichi familiari” di cui all’art. 1, paragrafo 1, lett. z) del regolamento 883/2004.

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha, infatti, da tempo chiarito che le prestazioni familiari destinate a compensare i carichi familiari, volte “ad alleviare gli oneri derivanti dal mantenimento dei figli” (Corte di Giustizia dell’Unione Europea, 21.06.2017, C-449/16), che costituiscono prestazione di “sicurezza sociale”, sono quelle attribuite automaticamente alle famiglie in base a criteri oggettivi attinenti al loro reddito e alle loro dimensioni, e che prescindono da una valutazione discrezionale delle esigenze personali del richiedente, caratteristica tipica invece delle prestazioni di “assistenza sociale”.

Sul punto, il Tribunale richiamava quanto esposto recentemente dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, nella sentenza del 21.06.2017, C-449/16:

“La distinzione fra prestazioni escluse dall’ambito di applicazione del regolamento n. 883/2004 e prestazioni che vi rientrano è basata essenzialmente sugli elementi costitutivi di ciascuna prestazione, in particolare sulle sue finalità e sui presupposti per la sua attribuzione, e non sul fatto che essa sia o no qualificata come prestazione di sicurezza sociale da una normativa nazionale […] La Corte ha già dichiarato che le modalità di finanziamento di una prestazione e, in particolare, il fatto che la sua attribuzione non sia subordinata ad alcun presupposto contributivo sono irrilevanti per la sua qualificazione come prestazione di sicurezza sociale (v. in tal senso, sentenze del 16 luglio 1992, Hughes, C-78/91, EU:C:1992:331, punto 21; del 15 marzo 2001, Offermanns, C-85/99, EU:C:2001:166, punto 46, e del 24 ottobre 2013, Lachheb, C- 177/12, EU:C:2013:689, punto 32). Peraltro, il fatto che una prestazione sia concessa o negata in considerazione dei redditi e del numero di figli non implica che la sua concessione dipenda da una valutazione individuale delle esigenze personali del richiedente, caratteristica dell’assistenza sociale, nei limiti in cui si tratta di criteri obiettivi e definiti per legge che, quando sono soddisfatti, danno diritto a tale prestazione senza che l’autorità competente possa tener conto di altre circostanze personali (v., in tal senso, sentenza del 16 luglio 1992, Hughes, C-78/91, EU:C:1992:331, punto 17). Così, prestazioni attribuite automaticamente alle famiglie che rispondono a determinati criteri obiettivi, riguardanti segnatamente le loro dimensioni, il loro reddito e le loro risorse di capitale, prescindendo da ogni valutazione individuale e discrezionale delle esigenze personali, e destinate a compensare i carichi familiari, devono essere considerate prestazioni di sicurezza sociale” (Corte di Giustizia dell’Unione Europea, 21.06.2017, C- 449/16).

Alla luce di tali disposizioni, l’assegno di natalità ex art. 1, comma 125 della legge n. 190/2014 va evidentemente qualificato come prestazione di “sicurezza sociale”, in quanto diretto a incentivare la natalità e a sostenere economicamente le famiglie per il mantenimento dei figli, e corrisposto automaticamente qualora ricorrano i requisiti reddituali sanciti dalla legge, senza l’attuazione di alcun tipo di verifica discrezionale delle necessità individuali di colui che richiede di poterne usufruire.

Trattandosi di una prestazione di “sicurezza sociale”, l’assegno di natalità rientra nell’ambito applicativo dell’articolo 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva n. 98/2011, il quale prevede che i titolari di permesso unico lavoro devono beneficiare dello stesso trattamento dei cittadini nazionali anche per quanto riguarda le prestazioni sociali ai sensi della legislazione nazionale.

Contrariamente infatti a quanto asserito da INPS nella sua memoria difensiva, l’art. 12, paragrafo 1, lettera e) della direttiva n. 98/2011, sebbene effettivamente non trasposto dal d.lgs. n. 40/2014 che ha recepito la direttiva, in conformità al costante orientamento della giurisprudenza di merito, esplica efficacia diretta nel nostro ordinamento, in quanto disposizione precisa e incondizionata, pertanto di immediata applicabilità (v. ex plurimis, Tribunale di Bergamo, 29.01.2021, n. 501).

Si osserva in proposito che anche la Corte Costituzionale, nella recente ordinanza n. 52/2019, pur riferendosi a una differente prestazione, richiamando proprio la direttiva n. 98 del 2011, ne ha ribadito l’immediata applicabilità.

Ne discende dunque che la legge n. 190/2014, nella parte in cui pone come requisito per ottenere la prestazione da parte dei cittadini extracomunitari il possesso del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, escludendo coloro che sono in possesso di permesso unico lavoro, contrasta con il diritto alla parità di trattamento di cui all’articolo 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva n.98 del 2011, pertanto deve essere disapplicata.

Quanto alla valenza discriminatoria della condotta adottata da INPS, si osserva che la Corte di Giustizia ha da tempo sancito che l’obbligo di applicazione diretta della norma comunitaria grava su tutti gli organi dello Stato, comprese le pubbliche amministrazioni (Corte di Giustizia dell’Unione Europea, 22.06.1989, 103/88).

Nel caso di specie, Inps che ha negato al ricorrente il versamento dell’assegno di natalità, perché titolare di permesso unico lavoro, in presenza altresì della sussistenza degli ulteriori requisiti previsti dalla legge (residenza in Italia e Isee 2020 pari a 3.090,39 euro), come risultanti dalla documentazione prodotta in ricorso (doc. ric. 3), ha derogato al principio di parità di trattamento in violazione dell’art. 12 della direttiva n. 98/2011.

Anche INPS avrebbe pertanto dovuto disapplicare la norma interna, creando tale disposizione una situazione di disparita di trattamento ai danni del ricorrente per il fatto di essere titolare di permesso unico lavoro.

Alla luce di tutto quanto sopra, il ricorso veniva accolto dal Tribunale di Milano.

(Studio Legale Kòsa Musacchio – Click Avvocato – Avvocato del contribuente).