Quando può e quando non può essere espulso lo straniero (cittadino extracomunitario)? Importante sentenza n. 15362 del 22 luglio 2015 della Corte di Cassazione, in ordine al rigetto del decreto di espulsione in caso di assenza di rapporti familiare con il paese d’origine, interesse superiore del minore, condizioni di salute del cittadino del paese terzo.

Sentenza n. 15362 del 22 luglio 2015 della Corte di Cassazione.
FATTO

G.B. e sua figlia B.D., entrambe di origine kosovara, hanno proposto ricorso davanti al giudice di pace di Mantova avverso i decreti di espulsione emessi il 1/8/2012 a carico di ciascuna di esse, in quanto sprovviste di titolo di soggiorno. Le due cittadine straniere erano state sorprese su un treno, prive di biglietto, documenti e denaro.

A sostegno del ricorso hanno dedotto la violazione del diritto alla vita familiare, osservando di non aver subito alcuna condanna penale e, conseguentemente, di non essere pericolose; di avere legami indissolubili con l’Italia per essere la più giovane nata e vissuta costantemente nel nostro paese e la madre trasferitasi nel 1991 con il proprio marito, in seguito deceduto, senza mai più lasciare il nostro territorio.

Il giudice di pace ha respinto il ricorso osservando, per quanto ancora rileva, che la posizione irregolare della B. era innegabile avendo la stessa dichiarato di non aver rinnovato il permesso scaduto il 27 giugno 1994, mentre non erano state né dedotte né provate situazioni che consentissero di apprezzare l’inserimento socio-familiare delle ricorrenti.

Avverso tale provvedimento hanno proposto ricorso per cassazione entrambe le cittadine straniere. Il procedimento, avviato alla trattazione camerale è stato inviato in pubblica udienza con provvedimento collegiale.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso si denuncia la nullità del procedimento e dell’ordinanza impugnata per violazione del principio del contraddittorio, avendo il giudice di pace consentito al Prefetto di costituirsi in giudizio depositando una memoria fuori udienza dopo che la causa era stata assunta in decisione. La censura è infondata dal momento che la memoria contiene controdeduzioni che si sostanziano in mere difese in questioni rilevabili d’ufficio dal giudice di pace, con conseguente assenza di qualsiasi effettiva lesione del diritto al contraddittorio, peraltro non indicata in concreto.

Nel secondo motivo viene dedotta la violazione dell’art. 13 comma 2 bis del d.lgs. n. 286 del 1998 per l’omessa valutazione comparativa del diritto alla vita privata e familiare delle ricorrenti con l’interesse pubblico alla loro espulsione (nonché dell’art. 8 CEDU. La censura viene formulata anche sotto il profilo della violazione dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. La norma invocata stabilisce che nell’adottare il provvedimento di espulsione per pericolosità sociale nei confronti dello straniero che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare ovvero del familiare ricongiunto si tiene anche conto della natura e dell’effettività dei vincoli familiari dell’interessato, della durata del soggiorno nonché dell’esistenza di legami familiari, culturali e sociali con il suo paese d’origine.

La norma recepisce il frutto di un sedimentato orientamento giurisprudenziale della Corte Europea dei diritti umani secondo la quale non può aversi interferenza di un’autorità pubblica nell’esercizio del diritto alla vita privata e familiare, a meno che questa ingerenza non sia prevista dalla legge e costituisca una misura necessaria per la sicurezza nazionale, per la sicurezza pubblica, per la prevenzione dei reati, per la protezione della salute e della morale. È richiesta, pertanto, una valutazione di proporzionalità.

Secondo le parti ricorrenti l’art. 13 comma 2 bis ha escluso ingiustificatamente i familiari non ricongiunti che, tuttavia, possono esserne ricompresi alla luce di una giurisprudenza convenzionalmente orientata. È, pertanto, necessario verificare in concreto se le ricorrenti abbiano ragioni familiari o di radicamento nel nostro territorio (e di assenza di radicamento nel paese di origine) tali da imporre la valutazione di proporzionalità tra la misura adottata e la necessità di salvaguardare l’ordine pubblico, la sicurezza nazionale e la prevenzione dei reati.

Tale valutazione, ancorché imposta dall’art. 8 CEDU, è mancata nel provvedimento impugnato, sia sotto il profilo dell’omessa considerazione dei vincoli familiari che sotto l’altro relativo alla durata del soggiorno e all’assenza di legami con il K., con conseguente rilievo della censura ex art. 360 n. 5 cod. proc. civ.

L’esame del motivo richiede, preliminarmente alcune precisazioni sulla posizione giuridica delle ricorrenti nel nostro territorio e all’ampio contesto normativo, costituzionale e convenzionale nel quale le questioni prospettate si iscrivono. L’interpretazione del diritto positivo interno non può che essere orientata dai principi del diritto dell’Unione Europea elaborati in tema di rimpatrio e diritto all’unità familiare dei cittadini stranieri nonché dei principi CEDU in tema di modulazione dell’art. 8, tenuto conto della natura di parametri, ancorché interposti, di costituzionalità che tali principi rivestono secondo le univoche indicazioni della Corte Costituzionale (cfr. in tema di diritto all’unità familiare dei cittadini stranieri la sentenza n. 202 del 2013).

Secondo quanto desumibile dal provvedimento impugnato, B.G. nata in K. nel 1972, è stata titolare di un permesso di soggiorno, presumibilmente sostenuto da ragioni familiari, fino al 1994. D.B. è stata, incontestatamente, regolarmente soggiornante nel nostro paese fino al raggiungimento della maggiore età, raggiunta nel 2011, operando quanto meno la causa d’inespellibilità stabilita dall’art. 19, comma secondo, lettera a) del d.lgs. n. 286 del 1998 («non è consentita l’espulsione degli stranieri minori degli anni 18, salvo il diritto a seguire il genitore o l’affidatario espulsi»).

Il titolo espulsivo è, conseguentemente, costituito dal mancato possesso di un valido ed efficace permesso di soggiorno, secondo il paradigma normativo contenuto nell’art. 13, comma secondo, lettera b). La norma prescrive l’espulsione per chi si sia trattenuto nel territorio dello Stato senza avere richiesto il permesso di soggiorno nel termine prescritto, o il suo rinnovo, come è accaduto nel caso di specie.

Delle tre ipotesi normative di espulsione amministrativa descritte nella norma sopracitata, quella costituita dalla mancata richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno è senz’altro quella meno grave, tanto da essere esclusa nel caso in cui il precedente titolo di soggiorno sia scaduto da meno di sessanta giorni. Le altre due ipotesi stabilite nelle lettere a) e c) del secondo comma della medesima norma riguardano, infatti, l’ingresso irregolare e la pericolosità sociale, ovvero condizioni soggettive produttive dell’espulsione, anche sul piano sintomatico, molto più gravi.

Peraltro, a partire dal 15/2/2007, è stato introdotto il comma 2 bis con il quale il legislatore, attuando uno dei principi cardine della Direttiva 2003/86/CE, nel d.lgs. n. 5 del 2007 ha stabilito sia per l’ipotesi dell’ingresso irregolare che per quella della mancanza del permesso di soggiorno [originaria o sopravvenuta: art. 13, comma secondo, lettere a) e b) ] un rilevante temperamento nell’applicazione automatica delle predette cause espulsive costituito dalla necessità di tenere conto, nei confronti dello straniero che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare o del familiare ricongiunto, anche della natura e dell’effettività dei vincoli familiari, della durata del soggiorno nonché dell’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il paese di origine.

Accanto a questa disposizione specifica non può non sottolinearsi l’immanente generale obbligo introdotto dalla Direttiva 2008/115/CE (attuata con il d.l. n. 89 del 2011) convertito con la l. n. 129 del 2011) di valutare caso per caso, come espressamente riprodotto nell’incipit dell’art. 13, comma secondo, l’esistenza delle condizioni per l’adozione della misura espulsiva, senza procedere mediante l’applicazione automatica e standardizzata dei parametri normativi (cfr., ai fini dell’esclusione dell’automatismo dell’espulsione in caso di mera inottemperanza al precedente ordine di allontanamento, con interpretazione estensiva della sentenza della Corte di Giustizia del 28 aprile 2011, caso C-61/11: Cass. 18481 del 2011).

La decisione relativa al rimpatrio secondo i principi stabiliti dalla Direttiva 2008/115/CE non può essere assunta sulla base della “semplice considerazione del soggiorno irregolare”, ma deve fondarsi su “criteri obiettivi” e “caso per caso” (sesto Considerando della Direttiva 2008/115/CE). Deve, pertanto, procedersi ad un’attenta valutazione della situazione personale sia al fine di tenere nella debita considerazione:

  1. l’interesse superiore del bambino;
  2. la vita familiare;
  3. le condizioni di salute del cittadino di un paese terzo interessato;
  4. e il rispetto del principio di “non-refoulement” (art. 5 della Direttiva) sia al fine di favorire il rimpatrio mediante partenza volontaria e non coattiva (art. 7 della Direttiva).

In entrambe le fasi del rimpatrio, quella dell’adozione della misura espulsiva e quella della sua esecuzione, la Direttiva impone all’organo pubblico cui è demandata la decisione amministrativa e/o giurisdizionale di eseguire un corretto bilanciamento tra il diritto dello Stato membro alla conservazione di un regime di sicurezza e di controllo del fenomeno migratorio (coerente con le proprie risorse economico-occupazionali e con i propri principi di ordine pubblico) ed il nucleo dei diritti della persona connessi all’applicazione del principio di non refoulement e ai divieti di cui all’art. 3 CEDU, al diritto alla salute e alla vita familiare. Il bilanciamento deve essere eseguito alla stregua del principio di proporzionalità tra il sacrificio del diritto individuale (nelle tre forme declinate nel citato art. 5 della Direttiva) e la salvaguardia dell’ordine pubblico statuale. Il criterio è stato largamente utilizzato nella giurisprudenza della Corte Europea dei diritti umani, al fine di valutare la legittimità della compressione dei diritti fondamentali stabiliti nella Convenzione, ed in particolare del diritto alla vita privata e familiare, in funzione della salvaguardia dei principi di ordine pubblico interno da parte dei singoli Stati. Proprio con riferimento al mancato rinnovo di un permesso di soggiorno ad un cittadino algerino e alla lesione dell’art. 8 determinata da tale Boultiff contro Svizzera) dalla Corte Edu 1 seguenti criteri al fine di verificare la legittimità dell’ingerenza statuale nella titolarità e nell’esercizio del diritto alla vita familiare, ritenuto dalla Corte EDU non assoluto, ma modulabile mediante un adeguato bilanciamento che valuti se la misura limitativa, consistente nell’allontanamento coattivo del cittadino straniero, sia prevista dalla legge, abbia uno scopo legittimo, sia necessaria per una società democratica e se il cittadino straniero abbia un minimo radicamento territoriale nel paese di ritorno. L’applicazione del criterio di proporzionalità, alla base degli indicatori tratti dalla pronuncia Boultiff, ha portato la Corte Edu a respingere il ricorso nel caso C. contro Italia (sentenza del 7/4/2009) in virtù della gravità del quadro di pericolosità a carico dell’espellendo, riguardante anche attività terroristiche( ed, invece, ad una decisione di segno opposto nel caso O. contro Regno Unito (24/11/2009), in considerazione della natura e della discontinuità temporale nella commissione dei reati sulla base dei quali era stata formulata la prognosi di pericolosità sociale dell’espellendo comparati con l’esclusivo radicamento territoriale dei figli del ricorrente, oltre che con la stabilità ultra ventennale del nucleo coniugale e familiare.

Deve osservarsi che nei casi illustrati la causa dell’espulsione era costituita dalla prognosi di pericolosità sociale formulata nei confronti del cittadino straniero, ovvero fa un’ipotesi diversa da quelle contemplate nel citato art. 13, comma 2 bis, del d.lgs. n. 286 del 1998, entrambe relative ad una condizione soggettiva di carenza del titolo di soggiorno non dettata da una valutazione soggettiva negativa individuale del richiedente, come nelle fattispecie esaminate dalla Corte Edu. Tale diversità non può che incidere sull’applicazione del criterio di proporzionalità, dal momento che il bilanciamento tra la tutela della sicurezza e dell’ordine pubblico, assicurati con la misura espulsiva, ed il diritto individuale alla vita privata e familiare non include nella valutazione comparativa da eseguire un quadro sintomatico fondato sulla commissione di reati e su un profilo soggettivo di pericolosità.

Un altro rilevante strumento ermeneutico della norma contenuta nell’art. 13, comma 2 bis, è costituito dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 202 del 2013. In tale pronuncia è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale parziale dell’art. 5, comma quinto, del d. lgs. n. 286 del 1998 nella parte in cui non prevede che la valutazione in concreto della pericolosità sociale da eseguire in sede di rilascio, revoca o rinnovo del permesso di soggiorno possa essere svolta non solo nei confronti dello straniero che abbia esercitato il diritto al ricongiungimento familiare o del familiare ricongiunto, ma anche nei confronti di chi abbia legami familiari nel territorio dello Stato. Afferma la Corte Costituzionale che anche in quest’ultima ipotesi debba tenersi conto della durata del soggiorno e del quadro dei legami non solo familiari, ma anche sociali, prospettando espressamente l’adozione dell’interpretazione della giurisprudenza Edu sopra illustrata relativa all’art. 8, come parametro interposto di costituzionalità della norma impugnata.

L’operazione ermeneutica da svolgere in ordine all’ambito di applicazione dell’art. 13 comma 2 bis del d. lgs. n. 286 del 1998 è ampiamente delineata dal quadro costituzionale e convenzionale illustrato. S’impone, anche in considerazione della radicale assenza di pericolosità sociale delle fattispecie espulsive cui la norma si riferisce, un’interpretazione adeguatrice di natura estensiva in due direzioni. La prima, già tratteggiata nella sentenza della Corte Costituzionale sopra citata, conduce ad estendere la valutazione caso per caso anche al cittadino straniero che abbia legami familiari nel nostro paese ancorché non nella posizione di richiedere formalmente il ricongiungimento familiare, secondo un ampliamento del diritto all’unità familiare, formatosi in sede di giurisprudenza EDU sull’art. 8. La seconda conduce a porre su di un piano d’integrale equiparazione, nell’esame della situazione soggettiva del cittadino straniero, la vita privata e quella familiare secondo il paradigma interpretativo dell’art. 8, che non prevede gradazioni o gerarchie tra le due estrinsecazioni del diritto fondamentale contenuto nella norma e che, peraltro, la norma stessa induce a considerare con l’espresso richiamo ”all’esistenza dei legami sociali e culturali con il paese d’origine”.

Così delineato il parametro normativo sulla base del quale esaminare il motivo di ricorso, deve rilevarsi che nel provvedimento impugnato vengono esclusivamente considerate le condizioni di vita delle ricorrenti in Italia/omettendo integralmente l’esame relativo al rapporto con il paese d’origine e all’esistenza di un legame familiare e di un nucleo, composto dalle ricorrenti medesime, radicatosi in Italia e sviluppatosi esclusivamente nel nostro paese. Al riguardo, dalle stesse è stato espressamente allegato che la più giovane, nata e cresciuta in Italia, è del tutto priva di legame con il K., nel quale non si è mai recata. La seconda è immigrata molto giovane ed ha sempre vissuto, formando una comunità familiare con la figlia, nel nostro paese.

Rispetto al quadro fattuale, il giudice del merito, oltre ad omettere interamente l’esame e la valutazione del criterio costituito dai legami familiari nel nostro paese e dall’assenza di legami socioculturali con il paese d’origine, così integrando pienamente il vizio ex art. 360 n. 5 cod. proc. civ. anche nella più restrittiva versione introdotta dalla novella (ex d.l. 22 giugno 2012 n. 83 convertito con modificazioni nella l. 134 del 2012), ratione temporis applicabile, non ha operato alcun bilanciamento tra il diritto dell’autorità statuale, ampiamente illustrato, ed il diritto delle ricorrenti alla vita privata e familiare, mancando di eseguire quella valutazione caso per caso direttamente imposta dall’art. 13 e da interpretarsi alla luce del divieto di automatismo valutativo imposto dalla Direttiva 2008/115/CE e dal quadro della tutela del diritto affermato nell’art. 8 della CEDU dalla Corte di Strasburgo.

In conclusione, il ricorso veniva accolto ed il provvedimento impugnato cassato con rinvio al giudice di pace di Mantova, in diversa persona, il quale dovrà pronunciarsi anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Articolo correlato: VISTO REINGRESSO: NULLO SE NON MOTIVATO.