Sentenza n. 21405/2017 – Sez. 5 – Presidente: Biello Stefano – Relatore: Tedesco Giuseppe, pubblicata in data 15.9.2017 della Suprema Corte di Cassazione

Sono deducibili i costi anti economici dell’impresa? La Suprema Corte, in numerose pronunce, ha affermato la non inerenza degli atti manifestamente “anti economici” che determinano costi del tutto sproporzionati rispetto ai ricavi dell’impresa. Questo orientamento è fondato sul principio di economicità dell’azione imprenditoriale, che dovrebbe ispirare tutti gli atti dell’impresa. Ma tale sindacato non può spingersi sino alla verifica oggettiva circa la necessità, o quantomeno circa la opportunità di tali costi rispetto all’oggetto dell’attività, perché un detto controllo attingerebbe altrimenti a valutazioni di strategia commerciale riservate all’imprenditore.

FATTO

La CTR della Lombardia sull’appello proposto dall’Agenzia delle entrate, ha riformato in parte la sentenza di primo grado, che a sua volta aveva parzialmente accolto il ricorso proposto dalla contribuente, in relazione a un avviso di accertamento, con il quale, relativamente all’anno di imposta 2000, l’Amministrazione finanziaria aveva negato la deduzione di costi, rideterminato la perdita di esercizio e rettificato la dichiarazione IVA. Contro la sentenza l’Agenzia delle entrate ha proposto ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi, cui la società ha reagito con controricorso contenente ricorso incidentale.

MOTIVI DELLA DECISIONE
1.

Con il primo motivo di ricorso veniva dedotta l’omessa motivazione su un fatto decisivo della controversia.
Al fine di comprendere il senso della censura è necessario ripercorrere in estrema sintesi l’iter della vicenda. La principale ragione di ripresa operata dall’Amministrazione finanziaria ha quale punto di riferimento un contratto per servizi di marketing del 13 dicembre 1999 relativo alla fornitura, da parte della società norvegese X, e per il tramite di agenzie pubblicitarie nazionali, di servizi di marketing e pubblicità a favore di Y.
Tale contratto prevedeva un corrispettivo a favore di X pari a C 13,60 per ciascun nuovo abbonamento sottoscritto nel corso della durata del contratto. Questo contratto è stato risolto dalle parti tramite un secondo contratto datato 13 dicembre 2000, efficace a partire dal 30 novembre 2000. Con esso le parti, sulla premessa che il livello di benefici non era soddisfacente, hanno deciso di rescindere il precedente contratto «in modo tale che il cliente (e cioè Y) si assuma tutte le spese sostenute dal contraente (X) ed acquisisca tutti i diritti concessi dai fornitori di marketing in relazione ai servizi di marketing forniti dal contraente».

E’ stata quindi emessa la fattura n. 1 del 7 novembre 2000 da parte di X nei confronti di Y per l’importo di lire 38.984.136.693, con la quale furono addebitate alla contribuente, al puro costo, tutte le spese per servizi di marketing e pubblicità forniti da fornitori italiani a beneficio di Y, spese ch’erano state sostenute da X sulla base del contratto di Marketing del 13 novembre 2009.

Si legge in proposito nell’avviso di accertamento: «Con la rescissione del contratto di servizi di marketing le nuove convenzioni contrattuali hanno vigenza dal 30 novembre 2000 e non possono incidere sulle prestazioni già computate e già sorte prima della rescissione: ne deriva che, in ossequio a quanto previsto nel contratto originario e per il periodo di piena validità dello stesso, i costi relativi a prestazioni anteriori al 30 novembre 2000, cumulativamente riassunti nella fattura n. 1 del 7 novembre 2000 per l’importo di […] dovevano essere sostenute da X, la quale a sua volta avrebbe dovuto fatturare, come pattuito a Y, solo il compenso di C 13,60 per ogni nuovo abbonato». Da qui il recupero a tassazione del relativo importo. La sentenza è stata censurata per avere ritenuto che l’Amministrazione finanziaria non avesse “contestato” nel giudizio l’inerenza del costo.

Il motivo (ammissibile secondo la disciplina applicabile ratione temporis) è infondato, perché frutto di una lettura parziale della sentenza, il cui nucleo essenziale non è certamente nella frase oggetto di censura, ma piuttosto nella ricostruzione contrattuale della vicenda data dai giudici d’appello, i quali hanno inteso il contratto di rescissione intervenuto sul primo contratto quale «accordo novativo con il quale la parti avevano deciso di rivedere in aumento […] il costo delle prestazioni già ricevute». Posta tale premessa, la CTR ne ha ricavato la conseguenza della deducibilità del costo, tenuto conto che l’Ufficio non aveva contestato che l’accordo per aumentare il corrispettivo fosse solo fittizio.

Insomma, secondo la CTR, l’aumento condivideva la medesima natura e la medesima funzione, nell’ottica del rapporto contrattuale, del compenso originariamente pattuito. Essendo incontroversa e oggettiva l’inerenza del compenso originario in relazione alla tipologia di prestazioni di cui costituiva il corrispettivo, ne discendeva, secondo la CTR, l’inerenza del secondo (l’aumento del compenso), non essendo in discussione che la pattuizione dell’aumento fosse reale e non fittizia.

Sia in fase amministrativa, sia in fase giudiziale il Fisco ha contestato l’inerenza del costo solo in rapporto alla giustificazione contrattuale del pagamento, ritenuta insussistente. Al contrario la CTR ha ritenuto contrattualmente giustificata la maggiore misura del pagamento e in tale riconoscimento (e non in una imprecisa percezione delle difese dell’Ufficio) è la sola ratio decidendí della sentenza, che sfugge pertanto alla censura di cui al motivo in esame.

2.

Tale ratio decidendí è oggetto della censura proposta con il secondo motivo di ricorso, il quale denuncia la violazione o falsa applicazione dell’artt. 75, comma quinto, del d.P.R., n. 917 del 1986 (attuale art. 109, comma quinto). Secondo l’Amministrazione finanziaria l’assunzione dei maggiori costi, seppure logicamente ed economicamente giustificabile nell’economia del gruppo, non poteva dar luogo a costi inerenti, in quanto sostenuti per una libera scelta della società in favore di soggetto che non aveva titolo per pretendere nient’altro che il corrispettivo originariamente pattuito. Così facendo, la contribuente avrebbe fatto una scelta antieconomica, discendendone di conseguenza la indeducibilità del costo.

Il motivo risulta infondato. La Suprema Corte, in numerose pronunce, ha affermato la non inerenza degli atti manifestamente “antieconomici” che determinano costi del tutto sproporzionati rispetto ai ricavi dell’impresa. Questo orientamento è fondato sul principio di economicità dell’azione imprenditoriale, che dovrebbe ispirare tutti gli atti dell’impresa (Cass. n. 793/2004; n. 11240/2001).

«I comportamenti che si pongono in contrasto con le regole del buon senso e dell’id quod plerumque accidit, uniti alla mancanza di una giustificazione razionale (che non sia quella di eludere il precetto tributario), assurgono al rango di elementi indiziari gravi, precisi e concordanti, che legittimano il recupero a tassazione dei relativi costi (Cass. n. 23635/2008)». Tuttavia la giurisprudenza di legittimità ha, nello stesso tempo, precisato che «se rientra nei poteri dell’Amministrazione finanziaria la valutazione di congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni e la rettifica di queste ultime, anche se non ricorrano irregolarità nella tenuta delle scritture – contabili o vizi degli atti giuridici compiuti nell’esercizio d’impresa, con negazione della deducibilità di parte di un costo non proporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa» (tra le altre, Cass. n. 8072 del 2010, n. 9036 del 2013), un siffatto sindacato non sembra possa spingersi, come postulato dall’amministrazione ricorrente, sino alla «verifica oggettiva circa la necessità, o quantomeno circa la opportunità (sia pure secondo una valutazione condotta con riguardo all’epoca della stipula del contratto) di tali costi rispetto all’oggetto dell’attività. E tanto perché il controllo attingerebbe altrimenti a valutazioni di strategia commerciale riservate all’imprenditore» (Cass. n. 10319/2015).

Nel caso di specie è avvenuto che Y., grazie al primo contratto del 13 dicembre 1999, ha usufruito di servizi di marketing e pubblicità per il tramite della diversa società del gruppo X, alla quale avrebbe dovuto corrispondere un compenso di C 13,60 per ciascun nuovo abbonamento sottoscritto nel corso della durata del contratto. A tale accordo n’è seguito un altro, con il quale è stata ripristinata la situazione quale sarebbe stata se il contratto del 13 novembre 1999 non ci fosse stato e Y si fosse procurata quegli stessi servizi operando in prima persona sul mercato: la contribuente non corrisponde i compensi pattuiti e rimborsa i costi sostenuti a suo beneficio dalla diversa società del gruppo. E’ pertinente sottolineare che la stessa Amministrazione finanziaria, con il fine di fare emergere una diversa violazione in tema di IVA, ha reputato che la contribuente dovesse ritenersi la reale committente delle prestazioni oggetto della fattura cumulativa addebitatale da X, la cui deducibilità è stata disconosciuta con l’avviso di accertamento all’origine della presente vicenda. Quanto alle conseguenze economiche del secondo contratto, le stesse sono identificate a pag. 15 del ricorso per cassazione nei seguenti termini: «I servizi di marketing erano stati già resi dalla società norvegese (X) e la contribuente disponeva di un titolo giuridico che consentiva di pagarli a un prezzo infinitamente inferiore a quello che con il nuovo contratto ha accettato di pagare».

Insomma l’anti economicità dell’operazione è fatta dipendere esclusivamente dall’avere la contribuente rinunciato ai benefici derivanti da un contratto, non essendo giuridicamente tenuta a farlo. Ma come già chiarito da questa Suprema Corte il controllo del Fisco non può spingersi fino al punto di sindacare scelte di questo tipo, che riflettono «valutazioni di strategia commerciale riservate all’imprenditore». Così come il Fisco non aveva titolo per interferire nella scelta iniziale della contribuente (censurando la decisione di non cogliere l’opportunità di beneficiare di prestazioni pubblicitarie corrispondendo un compenso minore al prezzo che avrebbe dovuto sostenere operando in prima persona sul mercato), analogamente non ha titolo per sindacare, sic et simpliciter, e cioè senza dedurre elementi ulteriori rilevatori di una finalità estranea alla gestione aziendale, la scelta inversa della società, di riassumere su di sé, al “puro costo“, gli oneri sostenuti dalla consociata nel suo interesse.

3.

Con il terzo motivo veniva dedotto la violazione o falsa applicazione dell’art. 75, comma quinto, del d.P.R. n. 917 del 1986 (attuale art. 109, comma quinto) e dell’art. 19 del d.P.R n. 633 del 1972. Il motivo riflette una ragione di recupero coordinata con quella alla quale si riferisce il precedente motivo, consistente nel fatto che Y a partire dal settembre 2000, pochi mesi prima dell’accordo risolutivo, ha cominciato a sostenere i costi di pubblicità in prima persona, senza ottenerne benefici in termini contrattuali nel rapporto con la società norvegese X, visto che quest’ultima avrebbe continuato a percepire i compensi in ragione dei nuovi abbonati di Y.

Mutatis mutandis il rilievo ripercorre, da diverso punto di vista, la logica del precedente motivo: la contribuente, pur avendo il titolo per porre la spesa a carico di un terzo, decide di sostenerla in prima persona, rimanendo tenuta a corrispondere al terzo il compenso pattuito, che non subiva variazione in rapporto a tale scelta.

Il motivo veniva dichiarato infondato. Ancora una volta non è in discussione l’inerenza e la congruità del costo, ma la scelta dell’imprenditore di procedere in un modo piuttosto che in un altro. Non resta pertanto che richiamare quanto sopra detto sui limiti del controllo del Fisco su scelte di questo tipo (Cass. n. 10319/2015 cit.), essendo inoltre certamente esatto quanto rilevato a questo proposito dalla controricorrente: gli oneri sostenuti direttamente dalla contribuente sarebbero stati comunque riaddebitati a Y in forza del successivo accordo risolutivo, con la conseguenza che l’affidamento dei servizi a X, anziché direttamente all’agenzie pubblicitarie, si sarebbe risolto in una partita di giro.

4.

Con il quarto motivo veniva dedotta la violazione o falsa applicazione dell’art. 6 del d.lgs. n. 471 del 1997, nonché del principio generale del divieto di abuso del diritto. Gli importi di cui alla fattura n. 1 del 7 novembre 2000 costituivano la somma di una pluralità di fatture emesse per prestazioni pubblicitarie intestate a X, società presso la quale erano state centralizzate le funzioni di Marketing, fatture emesse senza applicazione di IVA ai sensi dell’art. 7, comma 4, del d.P.R.n. 633 del 1972. Le fatturazioni seguivano all’interno del gruppo il seguente meccanismo:

  1. Y commissionava a X i servizi pubblicitari, sulla base del contratto originario poi consensualmente risolto;
  2. X commissionava, a propria volta, a Tele 2 Nederland BV i medesimi servizi pubblicitari;
  3. Tele 2 Nederland BV commissionava alle agenzie pubblicitarie italiane gli stessi servizi di pubblicità.

Secondo la ricorrente, attraverso questo complesso meccanismo, in particolare attraverso l’interposizione inutile di una ulteriore società, si perveniva al risultato di sottrarre da IVA prestazioni che altrimenti sarebbero state soggetta a tale imposta, in quanto effettuate sul territorio nazionale, rese da soggetti aventi sede legale nel territorio nazionale, e che vedevano come (reale) committente la contribuente Y. In ciò ha ricorrente Agenzia delle entrate ha ravvisato un’ipotesi di abuso del diritto.

Il motivo introduce una questione nuova non prospettata nel precedente grado del giudizio. La censura è anche diversa dalla giustificazione della ripresa operata al riguardo nell’avviso di accertamento, che è identificata nel fatto che la contribuente doveva ritenersi la reale committente delle prestazioni fatturate alla consociata olandese. Y era quindi tenuta ad autofatturare le prestazioni ricevute.

Il motivo è perciò inammissibile. D’altronde è orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità che il divieto di comportamenti abusivi non vale qualora le operazioni possano spiegarsi altrimenti che con il mero conseguimento di risparmi di imposta poiché va sempre garantita la libertà di scelta del contribuente tra diverse operazioni comportanti anche un differente carico fiscale (v., fra la altre, Cass. n. 439/2015). Diversamente, nel caso in esame, l’Amministrazione prospetta l’abuso del diritto, ma non precisa quale sia stato il risparmio fiscale conseguito dalla contribuente. Y, infatti, era estranea al meccanismo di fatturazione dei servizi pubblicitari resi a suo favore dalle agenzie italiane, proprio in base a quel contratto di marketing fra Y e X sul quale l’Amministrazione ha fondato la principale ragione di ripresa.

5.

Con unico motivo di ricorso incidentale la società deduce, in relazione all’art. 360, comma primo, n. 5, c.p.c., l’omessa e comunque l’insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia. Il motivo riguarda la deducibilità di una parte dei costi complessivamente addebitati a Y dalla controllante Tele 2 Europa S.A., negata dall’Amministrazione Finanziaria in quanto ritenuti non inerenti. In proposito la contribuente ha ottenuto ragione in primo grado, ma la CTR è andata in contrario avviso, essenzialmente per aver ritenuto che la società controllata, gravata dal relativo onere, non avesse fornito in proposito una prova adeguata.

Il motivo veniva dichiarato fondato. In rapporto al complesso degli elementi addotti dalla contribuente nel giudizio, la motivazione è inidonea a dare giustificazione del decisum su questo aspetto. La contribuente aveva eccepito, sulla scorta della documentazione prodotta e richiamata nel motivo, che le spese in questione non potevano ritenersi inerenti all’attività di impresa di Tele2 Europa, trattandosi all’evidenza di costi sostenuti nell’interesse delle società operative, fra cui Y, trattandosi di spese per manutenzione e di pubblicità (la capo gruppo non ha clienti né svolge servizi di telefonia).
Nessuno di tali rilievi trova risposta nella sentenza, il cui difetto motivazionale risulta ancora più evidente nel confronto con la sentenza di primo grado, la quale aveva dato ragione della propria decisione, favorevole alla contribuente, proprio in rapporto alla natura dei servizi resi dalla capo gruppo, come risultanti dai documenti prodotti.

Il ricorso principale veniva rigettato, mentre veniva accolto il ricorso incidentale, con rinvio per nuovo esame alla Commissione tributaria regionale della Lombardia in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

In conclusione: nel caso in esame l’anti economicità dell’operazione deriverebbe dal fatto che la contribuente ha rinunciato ai benefici derivanti da un contratto, non essendo giuridicamente tenuta a farlo. Ma come già chiarito dalla Suprema Corte, il controllo del Fisco non può spingersi fino al punto di sindacare scelte di questo tipo, che riflettono «valutazioni di strategia commerciale riservate all’imprenditore». Così come il Fisco non aveva titolo per interferire nella scelta iniziale della contribuente (censurando la decisione di non cogliere l’opportunità di beneficiare di prestazioni pubblicitarie corrispondendo un compenso minore al prezzo che avrebbe dovuto sostenere operando in prima persona sul mercato), analogamente non ha titolo per sindacare, sic et simpliciter, e cioè senza dedurre elementi ulteriori rilevatori di una finalità estranea alla gestione aziendale, la scelta inversa della società, di riassumere su di sé, al “puro costo”, gli oneri sostenuti dalla consociata nel suo interesse. Per tale ragione i relativi costi devono considerarsi deducibili.