Diffamazione in Internet e social network: Sentenza n. 8482/2017 della Suprema Corte – Sez. 5° Penale del 23.1.2017, pubblicata in data 22.2.2017 – secondo cui, l’uso dei social network, e quindi la diffusione di messaggi veicolati a mezzo internet, integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma 3, cod. pen., in quanto trattasi di condotta potenzialmente in grado di raggiungere un numero indeterminato o, comunque, quantitativamente apprezzabile di persone, qualunque sia la modalità informatica di condivisione e di trasmissione.


FATTO

Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Bologna, in riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Ferrara in data 2.5.2013, con la quale l’imputata era stata assolta dal delitto di cui agli artt. 81, comma 2, 595, commi 1, 2, 3, cod. pen. – perché, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, utilizzando internet e quindi con un mezzo di pubblicità, ed in particolare i siti: www.focus.it/comunity/es/forum, www.annunci.studenti.it/sassari, www.tesionline.it/autori/presentazione, www.socialdesignzine.ap.it/news, www.marylibri.giovani.it, www.adoos.it, www.wikio.it, www.boxannunci.com/annunci,o.asp?=180 e, quindi, comunicando con un numero indeterminato di persone, offendeva la reputazione di una ricercatrice di storia moderna presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Ferrara, la quale le aveva prestato assistenza per l’elaborazione di una tesi di laurea consistente nella trascrizione di un manoscritto ed in uno studio introduttivo all’edizione.

L’imputata, scrivendo messaggi relativi alla ricercatrice, attribuiva alla stessa un fatto determinato, ossia la copiatura della propria tesi di laurea, pubblicando un proprio libro.

La Corte di Appello di Bologna, con l’aggravante di aver attribuito alla parte lesa un fatto determinato, in Ferrara ed altre località nelle date indicate, dichiarava la imputata colpevole del reato a lei ascritto e la condannava a pena di giustizia oltre che al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile.

Con ricorso depositato in data 29.1.2016 l’imputata, a mezzo del difensore di fiducia, ricorreva in cassazione, sostenendo che la giurisprudenza di legittimità ha più volte affermato che alla rete Internet non si applicano le disposizioni sulla diffamazione a mezzo stampa, in quanto un social network non può essere equiparato ad un prodotto tipografico né ad un luogo pubblico, non essendo, quindi, ravvisabile la circostanza di cui all’art. 595, comma 3, cod. pen..

Con il secondo motivo sosteneva, altresì, che nel caso in esame non sussisteva il requisito della comunicazione con più persone, poiché il sito Internet sarebbe un luogo privato accessibile ai soli iscritti, essendo, inoltre, la diffusione ascrivibile al provider, unico responsabile della eventuale diffamazione; inoltre il luogo di consumazione del reato dovrebbe essere individuato in quello dove è collocato il server.

Con il terzo motivo, l’imputata eccepiva la mancata assunzione di una prova decisiva, in ordine alla motivazione della sentenza circa l’elemento psicologico del reato, peraltro contrastante con la consulenza difensiva, dimostrativa della sussistenza del plagio, in assenza di una perizia di ufficio sul punto, non espletata nonostante la richiesta difensiva.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso veniva dichiarato inammissibile. Quanto al primo motivo risultava evidente come le doglianze formulate non tenevano in alcun conto gli arresti della giurisprudenza di questa Corte, secondo cui l’uso dei social network, e quindi la diffusione di messaggi veicolati a mezzo internet, integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma 3, cod. pen., in quanto trattasi di condotta potenzialmente in grado di raggiungere un numero indeterminato o, comunque, quantitativamente apprezzabile di persone, qualunque sia la modalità informatica di condivisione e di trasmissione (Sez. 1, sentenza n. 24431 del 28/04/2015, Conflitto di competenza, Rv. 264007; Sez. 5, sentenza n. 41276 del 19/03/2015, Rv. 265227; Sez. 5, sentenza n. 44980 del 16/10/2012, P.M. in proc. Nicastro, Rv. 254044).

Ciò, d’altra parte, scaturisce dal substrato semantico della stessa terminologia utilizzata. Originariamente il termine social network ha indicato un qualsiasi gruppo di individui connessi tra loro dai più diversi legami sociali, da quelli familiari ai rapporti di lavoro, sino a vincoli casuali, ed è stato utilizzato come base di studi interculturali in campo sociologico ed antropologico. La diffusione del web ha ampliato il significato del termine social network ed ha, quindi, creato profonde modificazioni semantiche in relazione ad un concetto, quello di rete sociale, che nasceva come una rete fisica ed era basato sulla regola, conosciuta come numero di Dunbar, secondo la quale le dimensioni di una rete sociale in grado di sostenere relazioni stabili sono limitate a circa 150 membri. Ciò in quanto la versione di Internet delle reti sociali, ossia i social media, rappresenta attualmente una delle forme più evolute di comunicazione in rete, ed è anche una palese dimostrazione del superamento della teoria sociologica rappresentata dalla “regola dei 150“, considerando la rete delle relazioni sociali che ciascuno individuo tesse ogni giorno, in maniera più o meno casuale, nei vari ambiti della propria vita, suscettibile di essere organizzata in una mappa consultabile, e potenzialmente capace di arricchirsi di nuovi contatti.

In realtà la difesa confondeva la problematica concernente la diffamazione aggravata in quanto arrecata con il mezzo della stampa, prevista dall’art. 595, comma 3, cod. pen., con l’offesa arrecata con altro mezzo di pubblicità, prevista dalla medesima norma. Non vi è dubbio, infatti, che l’ordinamento recepisca una accezione tecnica e restrittiva di stampa, desunta dal dettato normativo, ma proprio l’utilizzazione della particella disgiuntiva – se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità …, come recita l’art. 595, comma 3, cod. pen. – rende evidente come la categoria dei mezzi di pubblicità sia più ampia del concetto di stampa, includendo tutti quei sistemi di comunicazione e, quindi, di diffusione – dal fax ai social media – che, grazie all’evoluzione tecnologica, rendono possibile la trasmissione di dati e notizie ad un numero ampio o addirittura indeterminato di soggetti.

Nel caso in esame la circostanza che i siti utilizzati per la diffusione degli scritti elaborati dalla ricorrente fossero destinati ad operatori universitari del settore delle scienze umane nulla toglie alla diffusività delle notizie in un ambito estremamente ampio, tale dovendosi considerare quello di riferimento, senza considerare, inoltre, che molti dei siti utilizzati – basti pensare al sito destinato agli annunci studenti o a quello sulle tesi on line e, soprattutto al blog delle testate giornalistiche La Repubblica e L’Espresso – appaiono chiaramente consultabili da una platea ben più ampia di soggetti.

La sussistenza dell’aggravante contestata ai sensi dell’art. 595, comma 3, cod. pen., come si evince dalla formulazione del capo di imputazione – in cui internet è stato qualificato come mezzo di pubblicità – rende evidente, pertanto, anche la corretta individuazione della competenza in capo al Tribunale in composizione monocratica.

Quanto al luogo di consumazione del reato di diffamazione tramite la rete Internet, ove sia impossibile stabilire il luogo di consumazione del reato e sia stato invece individuato quello in cui il contenuto diffamatorio è stato caricato come dato informatico, per poi essere immesso in rete, la competenza territoriale va determinata, ai sensi dell’art. 9, primo comma, cod. proc. pen., in relazione al luogo predetto, in cui è avvenuta una parte dell’azione (Sez. 5, sentenza n. 31677 del 19/05/2015, Vulpio, Rv. 264521).

In relazione, infine, alla doglianza concernente la mancata assunzione di una prova decisiva, a parte la considerazione della intervenuta sentenza in sede civile che aveva escluso il plagio da parte della ricercatrice, va osservato che non solo detta perizia di parte non è stata neanche allegata al ricorso, come sarebbe stato necessario in base al principio di autosufficienza, ma, ciò che più conta, la sua acquisizione non era stata neanche richiesta in sede di appello dalla difesa della ricorrente, come risulta dal verbale dell’udienza celebratasi innanzi alla Corte di Appello di Bologna a seguito dell’impugnazione della sentenza assolutoria di primo grado da parte del pubblico ministero e della costituita parte civile. Detta doglianza, quindi, costituisce un motivo proposto per la prima volta in sede di legittimità, come tale inammissibile, non potendo essere dedotte, con il ricorso per cassazione, questioni sulle quali il giudice di appello abbia omesso di pronunciare perché non devolute alla sua cognizione (Sez. 2, sentenza n. 6131 del 29/01/2016, Menna ed altro, Rv. 266202; Sez. 5, sentenza n. 28514 del 23/04/2013, Grazioli Gauthier, Rv. 255577).