Nei primi decenni successivi alla ratifica, la Convenzione EDU ha avuto influenza molto marginale nell’ordinamento giuridico italiano, restando nota soltanto a una ristretta cerchia di studiosi e pratici di diritto internazionale. L’evoluzione è incominciata alla fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta, quando la Corte di cassazione, con alcune importanti decisioni, ha riconosciuto la diretta applicabilità delle norme della CEDU da parte del giudice. Nello stesso tempo, il legislatore nazionale ha incominciato a tenere in considerazione la CEDU e le pronunce della Corte di Strasburgo nella propria attività di produzione normativa.

I due esempi più eclatanti in questo senso, sono

  • il nuovo codice di procedura penale, entrato in vigore nel 1989, che si è ispirato programmaticamente ai principi sviluppati dalla giurisprudenza in materia di art. 6 CEDU;
  • e la cosiddetta legge Pinto del 2001, che disciplinò il risarcimento del danno da irragionevole durata del processo, apprestando così un rimedio nazionale contro questo tipo di violazioni del diritto convenzionale.

La giurisprudenza della Corte costituzionale, per altro verso, rimaneva a più lungo chiusa di fronte alla CEDU e alla giurisprudenza di Strasburgo, negando in particolare che la Convenzione, così come in generale il diritto internazionale pattizio, avessero riferimento costituzionale nel nostro ordinamento, così da determinare l’illegittimità costituzionale di eventuali norme nazionali contrastanti.

Nel 2007 si è verificato però una SVOLTA di grande rilievo con le cosiddette “sentenze gemelle” (la n. 348 e la n. 349). La Corte costituzionale con le due sentenza ha dichiarato anzitutto che l’art. 117, primo comma, Cost. (escludendo la rilevanza degli artt. 10 e 11), vincolando la legislazione statale e quella regionale al rispetto degli «obblighi internazionali», determina l’illegittimità costituzionale di leggi statali contrastanti con quegli obblighi, tra i quali quelli discendenti dalla CEDU e dai suoi protocolli.

Tale illegittimità costituzionale deve però essere accertata e dichiarata dalla Corte costituzionale, essendo preclusa al giudice comune la disapplicazione di una legge nazionale che egli reputi contrastante con la CEDU, come interpretata dalla sentenze della Corte.

Più in particolare, il giudice comune, che sospetti il contrasto di una legge nazionale con la CEDU, dovrà anzitutto esperire un tentativo di interpretazione conforme della legge nazionale, in modo da eliminare, se possibile, il contrasto in via ermeneutica. Ove tale tentativo fallisca, il giudice dovrà sospendere il processo in corso e sollevare questione di costituzionalità di tale legge, chiedendo alla Corte costituzionale se essa sia compatibile con l’art. 117, primo comma, Cost. e, mediatamente, con la disposizione pertinente della CEDU o dei suoi protocolli, secondo l’interpretazione fornitane dalla Corte di Strasburgo.

Nel caso in cui la Corte costituzionale ritenga che tale contrasto effettivamente sussista, la legge nazionale verrà dichiarata incostituzionale, salvo che la norma della CEDU (così come interpretata a Strasburgo) appaia essa stessa contrastante con la Costituzione italiana.

Ipotesi, quest’ultima, di rilievo solo teorico, ma che rivela al fine di comprendere come, secondo la concezione della Corte costituzionale italiana, la CEDU, e in generale le norme di diritto internazionale pattizio, abbiano un rango intermedio tra la Costituzione e le leggi ordinarie: queste ultime devono essere compatibili con la CEDU, le quali però, a loro volta, devono essere compatibili con la Costituzione per avere ingresso nel nostro ordinamento. La Costituzione resta così la fonte suprema nel sistema giuridico italiano e superiore alle stesse norme di diritto internazionale.

Il dibattito sul rango della CEDU è tornato di attualità dopo la ratifica del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, ratificato e reso esecutivo con la legge 2 agosto 2008, n. 130 ed entrato in vigore il 1 dicembre 2009. Il Trattato in questione ha modificato il Trattato sull’Unione Europea (TUE) ed ha istituito il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE); in particolare, l’aspetto innovativo che in questa sede occorre rilevare è costituito dalla modifica dell’articolo 6 del Trattato sull’Unione Europea.

  • Tale articolo al paragrafo 1, statuisce che:

“l’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea del 7 dicembre 2000, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati”.

  • Il paragrafo 2 dispone che:

“l’Unione aderisce alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Tale adesione non modifica le competenza dell’Unione definite nei Trattati”;

  • Il paragrafo 3 invece, prevede che:

“I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione Europea in quanto principi generali”.

Il primo paragrafo dell’articolo 6 contiene il riferimento alla Carta dei diritti fondamentali di Nizza, alla quale, in virtù delle modifiche apportate dal Trattato di Lisbona, viene assegnato “lo stesso valore giuridico dei Trattati”. Sotto un primo versante dunque, è opportuno rilevare l’avvenuta “comunitarizzazione” (o “trattatizzazione”) della Carta di Nizza, su cui la dottrina e la giurisprudenza sono unanimemente concordi.

  • La prima tesi, sostiene che “comunitarizzazione” (o “trattatizzazione”) anche della CEDU, secondo cui alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo sarebbe stato attribuito lo stesso valore giuridico e dunque, la stessa forza dei Trattati e si fonda sulla valorizzazione del dato letterale contenuto nei paragrafi 2 e 3 dell’articolo 6; in particolare, a seguito delle locuzioni “aderisce” e “fanno parte” (riferiti ai diritti sanciti dalla CEDU).

Da tale ricostruzione deriva la necessità di garantire la primauté della CEDU sulle norme del diritto interno, alla stregua di ciò che avviene per il “diritto comunitario”, e cioè attraverso il meccanismo della disapplicazione delle norme interne configgenti con le norme CEDU. L’interpretazione è stata condivisa sia dal Consiglio di Stato che dal TAR del Lazio.

  • A tale impostazione si contrappone a quella secondo cui il rango delle norme CEDU nell’ordinamento interno sarebbe rimasto il medesimo, anche dopo le modifiche apportate all’articolo 6 dal Trattato di Lisbona.

Secondo detta tesi alla Carta di Nizza e alla CEDU viene attribuito diverso valore giuridico, in quanto la trattatizzazione non è sancita per la CEDU, essendo stata prevista solo una mera “adesione” della Unione alla CEDU e che i diritti fondamentali sanciti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo “fanno parte” del diritto dell’Unione Europea, quali affermazioni di principio prive di un effetto innovativo del valore giuridico della CEDU.

Allo stesso esito è pervenuta, tra l’altro, la Corte costituzionale, con sentenza del 12 ottobre 2012, n. 230, nella quale la Consulta ha confermato il rango della CEDU di fonte sub-costituzionale, ma sovraordinata rispetto alla legge costituzionale.

Allo stato attuale, mentre tutti gli stati membri dell’Unione sono anche parti della CEDU, l’Unione non la è. Quindi, la Corte EDU non è competente a sindacare gli atti e le previsioni del diritto dell’UE in rapporto alla CEDU. Per converso, essa è competente a pronunciarsi sugli atti degli Stati membri, inclusi quelli che danno attuazione agli obblighi discendenti dal diritto dell’UE. L’adesione richiede l’entrata in vigore di un Accordo di Adesione fra l’Unione e gli Stati che sono parti della CEDU. Nel 2013, è stato ultimato un Progetto di Accordo di Adesione, ma la Corte di Giustizia ne ha dichiarato l’incompatibilità con i Trattati UE e con la Carta (si veda il Parere 2/13).

Pur tuttavia, la circostanza secondo cui l’UE non sia (ancora) una parte della CEDU non implica che la Convenzione non abbia rilevanza giuridica ed impatto sul diritto dell’UE. Al momento, la CEDU e la sua Corte svolge le seguenti due funzioni rispetto al diritto eurounionale:

  • si pone come standard minimo di tutela rispetto alla Carta, il cui art. 52(3) prevede che: “Laddove la presente Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta convenzione. La presente disposizione non preclude che il diritto dell’Unione conceda una protezione più estesa” (su tale disposizione, si veda più diffusamente la sezione 5.1 Parte III);
  • ci si può avvalere della CEDU e della giurisprudenza della Corte di Strasburgo che la interpreta per tutelare i diritti fondamentali in qualità di principi generali del diritto dell’UE, secondo quanto previsto dall’art. 6(3) del TUE (si veda la sezione 2.3).

È possibile rappresentare la situazione attuale percorrendo le motivazioni della Sentenza n. 49/2015 della Corte costituzionale, secondo cui resta fermo che «L’applicazione e l’interpretazione del sistema di norme è attribuito in prima battuta ai giudici degli Stati membri» (sentenza n. 349 del 2007), ma questi ultimi non possono ignorare l’interpretazione della Corte EDU, una volta che essa si sia consolidata in una certa direzione. Corrisponde infatti a una primaria esigenza di diritto costituzionale che sia raggiunto uno stabile assetto interpretativo sui diritti fondamentali, cui è funzionale, quanto alla CEDU, il ruolo di ultima istanza riconosciuto alla Corte di Strasburgo.

Il giudice comune è tenuto ad uniformarsi alla «giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma conferente» (sentenze n. 236 del 2011 e n. 311 del 2009), «in modo da rispettare la sostanza di quella giurisprudenza» (sentenze n. 311 del 2009 e n. 303 del 2011), fermo il margine di apprezzamento che compete allo Stato membro (sentenze n. 15 del 2012 e n. 317 del 2009).

Per cui, solo un “diritto consolidato”, generato dalla giurisprudenza europea, obbliga il giudice nazionale a porre a fondamento del proprio processo interpretativo i relativi principi, mentre nessun obbligo esiste in tal senso, a fronte di pronunce che non siano espressione di un orientamento divenuto granitico e definitivo.

È la stessa CEDU a sottolineare il carattere progressivo della formazione del diritto giurisprudenziale, incentivando il dialogo fino a quando la forza degli argomenti non abbia condotto definitivamente ad imboccare una strada, anziché un’altra. In tale prospettiva, il rapporto dialettico non si esaurisce tra i componenti della Corte di Strasburgo, tende invece a coinvolgere idealmente tutti i giudici che devono applicare la CEDU, ivi compresa la Corte costituzionale. Si tratta di un approccio che diventerà ulteriormente fruttuoso nel momento in cui anche Italia aderirà al Protocollo addizionale n. 16 alla Convenzione stessa (la ratifica non è ancora avvenuta, nonostante il parere consultivo che la Corte EDU potrà rilasciare a richiesta delle giurisdizioni nazionali superiori è espressamente definito non vincolante, come previsto dall’art. 5).

Anche la suddetta previsione conferma una opzione a favore del confronto fondato sull’argomentare, in un’ottica di cooperazione e di dialogo tra le Corti, piuttosto che per l’imposizione verticistica di una linea interpretativa su questioni di principio che non hanno ancora trovato un assetto giurisprudenziale consolidato e sono perciò di dubbia risoluzione da parte dei giudici nazionali.

Inoltre, non sempre è di immediata evidenza se una certa interpretazione delle disposizioni della CEDU abbia maturato a Strasburgo un adeguato consolidamento, specie a fronte di pronunce destinate a risolvere casi del tutto peculiari, e comunque formatesi con riguardo all’impatto prodotto dalla CEDU su ordinamenti giuridici differenti da quello italiano. Nonostante ciò, vi sono indici idonei ad orientare il giudice nazionale nel suo percorso di discernimento rispetto alla consolidazione dei principi, come i seguenti che possono ritenersi indice di non robustezza della interpretazione:

  • la creatività del principio affermato, rispetto al solco tradizionale della giurisprudenza europea;
  • gli eventuali punti di distinguo, o persino di contrasto, nei confronti di altre pronunce della Corte di Strasburgo;
  • la ricorrenza di opinioni dissenzienti, specie se alimentate da robuste deduzioni;
  • la circostanza che quanto deciso promana da una sezione semplice, e non ha ricevuto l’avallo della Grande Camera;
  • il dubbio che, nel caso di specie, il giudice europeo non sia stato posto in condizione di apprezzare i tratti peculiari dell’ordinamento giuridico nazionale, estendendovi criteri di giudizio elaborati nei confronti di altri Stati aderenti che, alla luce di quei tratti, si mostrano invece poco confacenti al caso italiano.

Quando tutti, o alcuni di questi indizi si manifestano, secondo un giudizio che non può prescindere dalle peculiarità di ogni singola vicenda, non vi è alcuna ragione che obblighi il giudice comune a condividere la linea interpretativa adottata dalla Corte EDU per decidere una peculiare controversia, sempre che non si tratti di una “sentenza pilota” in senso stretto.

Solo nel caso in cui si trovi in presenza di un “diritto consolidato” o di una “sentenza pilota”, il giudice italiano sarà vincolato a recepire la norma individuata a Strasburgo, adeguando ad essa il suo criterio di giudizio per superare eventuali contrasti rispetto ad una legge interna,

  • anzitutto per mezzo di «ogni strumento ermeneutico a sua disposizione»,
  • ovvero, se ciò non fosse possibile, ricorrendo all’incidente di legittimità costituzionale (sentenza n. 80 del 2011).

Il giudice nazionale assumerà di conseguenza, e in linea di massima, quale norma interposta il risultato oramai stabilizzatosi della giurisprudenza europea, dalla quale la Corte costituzionale ha infatti ripetutamente affermato di non poter «prescindere» (ex plurimis, sentenza n. 303 del 2011), salva l’eventualità eccezionale di una verifica negativa circa la conformità di essa, e dunque della legge di adattamento, alla Costituzione (ex plurimis, sentenza n. 264 del 2012), di stretta competenza di questa Corte.

Ciò cambia nel caso in cui i principi enunciati dalla CEDU possono essere assorbiti nel diritto europeo o meglio, nel caso in cui rilevano rispetto a diritti e libertà di competenza della Unione. In questo caso, naturalmente, prevalendo sul diritto nazionale ed addirittura anche sulla Costituzione, impongono la disapplicazione delle previsioni nazionali contrastanti (se lo strumento interpretativo non risulti sufficiente).

Nel 2013 in seno al Consiglio d’Europa è stato approvato il protocollo n. 16 alla CEDU. In virtù del quale, per gli Stati che dovessero ratificarlo,

  • “le più alte giurisdizioni, di un’alta parte contraente […], possono presentare alla Corte delle richieste di pareri consultivi su questioni di principio relative all’interpretazione o all’applicazione dei diritti e delle libertà definiti dalla Convenzione e dai suoi protocolli”.

Questo protocollo è un chiaro segnale degli Stati membri di voler avvicinare, per quanto possibile, il modello CEDU a quello dell’Unione europea, prevedendo uno strumento molto simile al rinvio pregiudiziale di interpretazione. Com’è noto, Italia ha firmato il Protocollo, ma non ha ancora ratificato lo strumento, ma vi saranno sicuramente futuri risvolti che segneranno un punto di svolta nell’evoluzione dei rapporti tra Corte costituzionale e norme CEDU.

A parte ogni questione sulla possibilità giuridica di richiedere il parere anche in assenza di ratifica, resta fermo che il parere, pur non vincolante, che verrà emesso su richiesta di uno stato ratificante attivando lo strumento in discorso, avrà rilievo interpretativo indiretto anche nei confronti dell’Italia (e di tutti i Paesi del Consiglio d’Europa).

Secondo l’art. 362 c.p.c. “Le decisioni dei giudici ordinari passate in giudicato possono altresì essere impugnate per revocazione ai sensi dell’art. 391 quater quando il loro contenuto è stato dichiarato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo contrario alla Convenzione ovvero ad uno dei suoi Protocolli”.

L’Art. 391-quater c.p.c. prevede che: “Le decisioni passate in giudicato il cui contenuto è stato dichiarato dalla CEDU contrario alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali ovvero ad uno dei suoi Protocolli, possono essere impugnate per revocazione se concorrono le seguenti condizioni:

  1. la violazione accertata dalla Corte europea ha pregiudicato un diritto di stato della persona;
  2. l’equa indennità eventualmente accordata dalla Corte europea ai sensi dell’art. 41 della Convenzione non è idonea a compensare le conseguenze della violazione”.

Per cui, un altro strumento di adeguazione delle decisioni giurisdizionali alle statuizioni della CGUE è lo strumento della revocazione, in casi però strettamente previsti dall’art. 391-quater c.p.c..

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